Ho avuto l’onore e il piacere di conoscere Enzo Jannacci nei primi anni 2000 e di lavorare con lui per diverso tempo. Al compimento del suo 70° compleanno, ha firmato per me la sua prima regia per il monologo “La Mascula”, tratto dal mio omonimo racconto, già vincitore del Premio “Massimo Troisi” 2002 e pubblicato da Colonnese editore. In seguito ho preso parte, come interprete femminile, alla messa in scena della sua commedia “Le storie del Mago”. Inutile dire che l’incontro con un grande artista e poeta qual è stato Jannacci, ha segnato fortemente e indelebilmente il mio percorso artistico per non parlare di quello umano.

Nel riquadro a destra "La lucana e il milanese", dialogo semi - serio con Jannacci, scritto con Marie Belotti per la Milanesiana 2013 ideata e curata da Elisabetta Sgarbi.

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Video Intervista Rai 3 su La Mascula con Enzo Jannacci ed Egidia Bruno

LA LUCANA E IL MILANESE O MEGLIO, IO E JANNACCI… SCUSA MAESTRO, JANNACCI E IO

“Cioè, Egidia, adesso salta fuori che non sei calabrese!? Saresti lucana."

“Si, Maestro, della Basilicata."

“Basilicata…"

“Si, Maestro: tra la Puglia, la Campania e la Calabria”. “Ah si, è vero che c’è qualcosa lì in mezzo!"

“Eh si Maestro, c’è la Basilicata!"

“Ma se tu sei della Basilicata, com’è che sei lucana? Cioè: Lombardia, lombardo, Puglia, pugliese, Campania, campanese…"

“Campano, maestro, campano!"

“Va beh, quel che l’è! Ah, si dice campano?!"

“Vedi, Maestro, la Basilicata è piccola, anche se poi è più grande del Molise, dell’Umbria e pure della Valle d’Aosta"

“Andavi bene in geografia?”. “Sai Maestro, noi lucani siamo bravissimi in geografia. Perché siccome nessuno sa dove ci troviamo, allora noi ci siamo imparati dove stanno tutti quanti gli altri."

“Interessante. Si ma la questione dei due nomi?"

“Appunto. Ti stavo spiegando che la Basilicata è piccola, povera, però ha due nomi. Siamo l’unica regione in Italia che ha due nomi: Basilicata e Lucania!"

“No, ma scusa, però allora Lucania, lucani, Basilicata… Basilicani?!"

“No, Maestro: semmai Basilischi!”. “Basilischi?! Mi stai prendendo in giro? Basilischi! Come il film della Wertmuller!? Siete un cinema! Vi chiamate come un film?! ‘Quelli che… sono della Basilicata ma si chiamano lucani! Oh yeah’!... …Ma lo sai che l’amaro lucano è proprio buono, più buono del Ramazzotti!?” Quando arrivai a Milano, primi anni ’90, mica lo conoscevo Jannacci! Gaber, Gaber si. Avevo i suoi dischi. L’avevo visto in concerto. Ma Jannacci no. Per me Jannacci era quello di “Vengo anch’io no tu no"

e … poco altro. Meno male! Come siamo fatti noi Lucani, più umili degli umili, quando nel 2003 l’ho incontrato, se l’avessi considerato un mito, avrei provato una tale deferenza che il monumento mi sarebbe caduto addosso. Invece il fatto di non conoscerlo mi fece essere più spontanea con lui e il rapporto fu subito più autentico. La prima volta che dovevo andare a casa sua: “Maestro, cosa suono sul campanello?"

“Come, cosa suoni?"

“E si, sul campanello, cosa c’è scritto?"

“Jannacci. Cosa vuoi che ci sia scritto?!"

“Ma no, perché di solito, sai, tu sei un personaggio famoso…"

“Io non sono famoso. Io sono popolare”. E lì capii che Jannacci era un po’ lucano anche lui. Anche se era mezzo pugliese. Infatti lo diceva spesso: “E’ che a Milano… siamo tutti pugliesi”. Non ho mai capito cosa intendesse dire… Veramente i primi tempi facevo un po’ fatica a capire proprio che cosa dicesse. E lo ammetteva lui per primo: “Mi mangio le parole perché ho un sacco di idee delle quali solo poche arriveranno a termine”. Poi però, una sera, a cena coi miei genitori in visita a Milano, Jannacci con mio padre, un pensionato e mia madre, una casalinga, parlava limpido e chiaro come non l’avevo mai sentito prima! La conversazione, poi, tra lui e mio padre che si chiama Vincenzo, come lui si chiamava Enzo, fu a dir poco surreale: “No perché sa, sua figlia signor Vincenzo…"

“Ma io vi ringrazio signor Jannacci…”, “Vede signor Vincenzo…”, “Ma figuratevi signor Jannacci…”. “No, perché lei mi insegna signor Vincenzo…” “No, il maestro siete voi signor Jannacci…"

Mio padre è molto… lucano. Quando arrivai a Milano, dicevo, io non conoscevo Jannacci. Eppure … Dov’è che trovai casa? In via Sismondi. E un giorno, a qualche numero civico dopo il mio, vidi: “Studio medico, dott. Vincenzo Jannacci”. E si, perché Jannacci era medico e poeta: lavorava col dentro e il fuori delle persone, specie quelle più umili, gli “ultimi in classifica”, come li chiamava lui, quelli con le “scarp da tennis”, quelle che si chiamavano “Vincenzina”. E per uno che è lucano come me, come fa a non venirti in mente un altro “medico e poeta”, che confinato in una “terra oscura, senza peccato e senza redenzione”, come la descriveva lui, di quella terra amò e curò i più umili? Quella terra, la Basilicata, quel medico-poeta, Carlo Levi. Dopo un po’ di tempo che Jannacci ed io stavamo lavorando al mio monologo “La Mascula”, gli chiesi: “Maestro, ma perché hai accettato di farmi una regia sapendo che non posso pagarti?"

“E secondo te io ti faccio una regia per i soldi? Io ho fiuto. Quando uno è capace, vedo quello che ha dentro. Uno come me, in un’avventura tra merito e altro, ha avuto successo e chi ha successo deve aiutare chi si merita di averlo. E se non vi aiuto io, chi vi deve aiutare?"

A volte anche Jannacci usava il “voi"

come i lucani. Insomma, conobbi Jannacci in un sottoscala, si, un seminterrato dell’hinterland milanese dove si faceva cabaret, in una serata fredda e nebbiosa come da stereotipo milanese e quella sera invece mi era presa una nostalgia lucana che non volevo nemmeno uscire. E che? Uno emigra, fa tanti sacrifici, fa tanti sogni di gloria per poi recitare in un sottoscala? Ma dovevo andarci e quindi ci andai. Mica lo sapevo che al momento della mia esibizione mi sarei trovata, seduto di fronte, Enzo Jannacci, coi piedi appoggiati sulla pedana! Mamma mia! Mi prese un colpo. Però andai avanti e feci i miei tre minuti. Alla fine della serata volle conoscermi. Si complimentò e mi chiese di lavorare con lui. Voleva mettere in scena una sua commedia e gli serviva un’attrice come me. Meno male che quella sera c’ero andata nel sottoscala: io e la mia piccola follia avevamo avuto la fortuna di incrociarne una come la sua, unica e sconfinata. E quando mi diceva che io, come lui, ero fuori da certe guide io mi priavo!, (per chi non è lucano “io mi esaltavo!”) “Sai, Egidia, me mi dicevano sempre che ero matto. Ma non è che ero matto, ero soltanto povero”, “Però, Maestro, eri bravo?!"

“Bravo?! Ero solo bravo a confondermi con me stesso!"

E aggiungeva che alla sua età era ormai lento e fintamente saggio. Ma quale lento? La sua era una mente elastica pronta a cogliere la vita, l’immaginazione della vita. E lui ne faceva una questione di stile: “La vita è già tragica di per sé che raccontarla con lo stesso tono si diventa demagogici”. Quante risate durante le prove!, “Cambiando l’ordine degli addendi il dendifricio non cambia!"

“Maestro, ma che cazzata!"

“Devo divertirmi anch’io ogni tanto!"

“Maestro ma non puoi scrivere un po’ più grande? Scrivi troppo piccolo! Non si capisce niente!"

Allora lui prendeva un altro foglio e scriveva una vocale grande come tutto il foglio, “Va bene così? Solo che così consumiamo troppa carta!” “La mascula"

è un racconto ambientato in un paesino dell’Appennino Calabro-Lucano e allora lui ogni tanto: “Questo dillo nel tuo dialetto calabrese”. “Lucano, maestro, lucano!"

“Voi lucani sarete anche umili ma siete anche un po’ pignoli, eh!"

“Maestro, ma è un fatto d’identità! Pensa che Maratea ce la mettono sempre in Calabria!"

“Ah perché non è in Calabria?” “Maestro!” “Va beh, ma tu devi capire che le cose la gente non le sa o non le vede. E non è che fa finta, proprio non La Lucana e il Milanese o meglio, io e Jannacci… scusa Maestro, Jannacci e io “Cioè, Egidia, adesso salta fuori che non sei calabrese!? Saresti lucana."

“Si, Maestro, della Basilicata."

“Basilicata…"

“Si, Maestro: tra la Puglia, la Campania e la Calabria”. “Ah si, è vero che c’è qualcosa lì in mezzo!"

“Eh si Maestro, c’è la Basilicata!"

“Ma se tu sei della Basilicata, com’è che sei lucana? Cioè: Lombardia, lombardo, Puglia, pugliese, Campania, campanese…"

“Campano, maestro, campano!"

“Va beh, quel che l’è! Ah, si dice campano?!"

“Vedi, Maestro, la Basilicata è piccola, anche se poi è più grande del Molise, dell’Umbria e pure della Valle d’Aosta"

“Andavi bene in geografia?”. “Sai Maestro, noi lucani siamo bravissimi in geografia. Perché siccome nessuno sa dove ci troviamo, allora noi ci siamo imparati dove stanno tutti quanti gli altri."

“Interessante. Si ma la questione dei due nomi?"

“Appunto. Ti stavo spiegando che la Basilicata è piccola, povera, però ha due nomi. Siamo l’unica regione in Italia che ha due nomi: Basilicata e Lucania!"

“No, ma scusa, però allora Lucania, lucani, Basilicata… Basilicani?!"

“No, Maestro: semmai Basilischi!”. “Basilischi?! Mi stai prendendo in giro? Basilischi! Come il film della Wertmuller!? Siete un cinema! Vi chiamate come un film?! ‘Quelli che… sono della Basilicata ma si chiamano lucani! Oh yeah’!... …Ma lo sai che l’amaro lucano è proprio buono, più buono del Ramazzotti!?” Quando arrivai a Milano, primi anni ’90, mica lo conoscevo Jannacci! Gaber, Gaber si. Avevo i suoi dischi. L’avevo visto in concerto. Ma Jannacci no. Per me Jannacci era quello di “Vengo anch’io no tu no"

e … poco altro. Meno male! Come siamo fatti noi Lucani, più umili degli umili, quando nel 2003 l’ho incontrato, se l’avessi considerato un mito, avrei provato una tale deferenza che il monumento mi sarebbe caduto addosso. Invece il fatto di non conoscerlo mi fece essere più spontanea con lui e il rapporto fu subito più autentico. La prima volta che dovevo andare a casa sua: “Maestro, cosa suono sul campanello?"

“Come, cosa suoni?"

“E si, sul campanello, cosa c’è scritto?"

“Jannacci. Cosa vuoi che ci sia scritto?!"

“Ma no, perché di solito, sai, tu sei un personaggio famoso…"

“Io non sono famoso. Io sono popolare”. E lì capii che Jannacci era un po’ lucano anche lui. Anche se era mezzo pugliese. Infatti lo diceva spesso: “E’ che a Milano… siamo tutti pugliesi”. Non ho mai capito cosa intendesse dire… Veramente i primi tempi facevo un po’ fatica a capire proprio che cosa dicesse. E lo ammetteva lui per primo: “Mi mangio le parole perché ho un sacco di idee delle quali solo poche arriveranno a termine”. Poi però, una sera, a cena coi miei genitori in visita a Milano, Jannacci con mio padre, un pensionato e mia madre, una casalinga, parlava limpido e chiaro come non l’avevo mai sentito prima! La conversazione, poi, tra lui e mio padre che si chiama Vincenzo, come lui si chiamava Enzo, fu a dir poco surreale: “No perché sa, sua figlia signor Vincenzo…"

“Ma io vi ringrazio signor Jannacci…”, “Vede signor Vincenzo…”, “Ma figuratevi signor Jannacci…”. “No, perché lei mi insegna signor Vincenzo…” “No, il maestro siete voi signor Jannacci…"

Mio padre è molto… lucano. Quando arrivai a Milano, dicevo, io non conoscevo Jannacci. Eppure … Dov’è che trovai casa? In via Sismondi. E un giorno, a qualche numero civico dopo il mio, vidi: “Studio medico, dott. Vincenzo Jannacci”. E si, perché Jannacci era medico e poeta: lavorava col dentro e il fuori delle persone, specie quelle più umili, gli “ultimi in classifica”, come li chiamava lui, quelli con le “scarp da tennis”, quelle che si chiamavano “Vincenzina”. E per uno che è lucano come me, come fa a non venirti in mente un altro “medico e poeta”, che confinato in una “terra oscura, senza peccato e senza redenzione”, come la descriveva lui, di quella terra amò e curò i più umili? Quella terra, la Basilicata, quel medico-poeta, Carlo Levi. Dopo un po’ di tempo che Jannacci ed io stavamo lavorando al mio monologo “La Mascula”, gli chiesi: “Maestro, ma perché hai accettato di farmi una regia sapendo che non posso pagarti?"

“E secondo te io ti faccio una regia per i soldi? Io ho fiuto. Quando uno è capace, vedo quello che ha dentro. Uno come me, in un’avventura tra merito e altro, ha avuto successo e chi ha successo deve aiutare chi si merita di averlo. E se non vi aiuto io, chi vi deve aiutare?"

A volte anche Jannacci usava il “voi"

come i lucani. Insomma, conobbi Jannacci in un sottoscala, si, un seminterrato dell’hinterland milanese dove si faceva cabaret, in una serata fredda e nebbiosa come da stereotipo milanese e quella sera invece mi era presa una nostalgia lucana che non volevo nemmeno uscire. E che? Uno emigra, fa tanti sacrifici, fa tanti sogni di gloria per poi recitare in un sottoscala? Ma dovevo andarci e quindi ci andai. Mica lo sapevo che al momento della mia esibizione mi sarei trovata, seduto di fronte, Enzo Jannacci, coi piedi appoggiati sulla pedana! Mamma mia! Mi prese un colpo. Però andai avanti e feci i miei tre minuti. Alla fine della serata volle conoscermi. Si complimentò e mi chiese di lavorare con lui. Voleva mettere in scena una sua commedia e gli serviva un’attrice come me. Meno male che quella sera c’ero andata nel sottoscala: io e la mia piccola follia avevamo avuto la fortuna di incrociarne una come la sua, unica e sconfinata. E quando mi diceva che io, come lui, ero fuori da certe guide io mi priavo!, (per chi non è lucano “io mi esaltavo!”) “Sai, Egidia, me mi dicevano sempre che ero matto. Ma non è che ero matto, ero soltanto povero”, “Però, Maestro, eri bravo?!"

“Bravo?! Ero solo bravo a confondermi con me stesso!"

E aggiungeva che alla sua età era ormai lento e fintamente saggio. Ma quale lento? La sua era una mente elastica pronta a cogliere la vita, l’immaginazione della vita. E lui ne faceva una questione di stile: “La vita è già tragica di per sé che raccontarla con lo stesso tono si diventa demagogici”. Quante risate durante le prove!, “Cambiando l’ordine degli addendi il dendifricio non cambia!"

“Maestro, ma che cazzata!"

“Devo divertirmi anch’io ogni tanto!"

“Maestro ma non puoi scrivere un po’ più grande? Scrivi troppo piccolo! Non si capisce niente!"

Allora lui prendeva un altro foglio e scriveva una vocale grande come tutto il foglio, “Va bene così? Solo che così consumiamo troppa carta!” “La mascula"

è un racconto ambientato in un paesino dell’Appennino Calabro-Lucano e allora lui ogni tanto: “Questo dillo nel tuo dialetto calabrese”. “Lucano, maestro, lucano!"

“Voi lucani sarete anche umili ma siete anche un po’ pignoli, eh!"

“Maestro, ma è un fatto d’identità! Pensa che Maratea ce la mettono sempre in Calabria!"

“Ah perché non è in Calabria?” “Maestro!” “Va beh, ma tu devi capire che le cose la gente non le sa o non le vede. E non è che fa finta, proprio non le vede. Perché un conto è la vista esterna, un altro è che da qua manca il comando che innesca la spinta del pensiero speculativo che porta a capire o non capire come stanno le cose a questo mondo... Quindi da voi non c’è la ‘ndrangheta?"

“No, maestro, però siamo circondati, eh! ‘Ndrangheta sotto, camorra a nord-ovest, sacra corona unita a nord-est…"

“Vi manca solo Cosa Nostra!” “Adesso capisci, Maestro, perché è stata sempre terra di confino!” “Ma scusa, non mi hai detto che in questa tua Basilucania avete anche il petrolio!? Beh ma allora siete ricchi!"

“Ricchissimi, Maestro, 100 Euro all’anno di bonus benzina! Solo per chi è residente, però!” “Solo 100 Euro?” “E ma te l’ho detto Maestro: noi lucani siamo umili!” “E ma forse un po’ troppo! Però… mi piacerebbe venire nella tua Basilucania!” Eh… purtroppo Maestro, non abbiamo fatto in tempo. Ti avrei portato al mio paese, in piazza, a fare lo struscio, come avevamo scritto all’inizio della “Mascula”, ti ricordi? Avanti e indietro, lo struscio, voce del verbo strusciare… strofinare qualcosa o qualcuno contro un altro o un’altra cosa, la passeggiata… nei paesi, ma poi mica solo nei paesi… anche in città… A Milano no, a Milano si corre e basta: happy hour, fashion, trendy, briefing, riestling, assolutamente si … Avanti e indietro, ma dove vanno… ma soprattutto da dove vengono… Non è gente che realmente si conosce, è gente che però, senza mettersi d'accordo si vede tutti i giorni alla stessa ora, né prima né dopo, se no non ci credi! Si distribuisce in ordine sparso su tutta la lunghezza del corso adibito all’atto dello struscio e a un certo punto, come se ci fosse una specie di starter, pem!, partono tutti quanti nello stesso momento e ogni volta che si incrociano, si salutano. Come va? Bene, grazie e lei? Benissimo! Benissimo? Ma chi è che sta benissimo? Benissimo! Fanno gli spacconi… le gare a chi sta meglio! Avanti e indietro… che poi che cosa vuol dire andare avanti? Anche perché se siamo tutti convinti di andare avanti, anche quando andiamo indietro, poi è dura andare avanti, durissima… Ecco Maestro, lo spettacolo l’abbiamo fatto ma non c’è stato il tempo di portarti in Basilucania a fare lo struscio. Come ci è mancato il tempo per insegnarmi a cantare “MA MI”, come volevi tu. “Maestro mi piacerebbe tanto cantare ‘Ma mi’ ” “Tu?! Ma cosa vuoi cantare ‘Ma mi’, tu? Guarda che il milanese è difficile!” “E ma se me lo insegni tu!"

“Va beh… proviamo, però allora potresti cantarla come… un valzer lento, anzi meglio, quasi come una ninna nanna…” (cantando) Sun saràa su in ‘sta ratera Piena de nebbia, de frecc e de scur, sotta a ‘sti mur passen i tramm frecass e vita del me Milan… El coeur se string, ven giò la sira, me senti mal e stu minga in pè cucià in del let, in un cantun ma par de vess propri nessun! L’è pesc che in guera staa su la tera: la libertà la var ‘na spiada! Ma mi, ma mi, ma mi Quaranta dì, quaranta nott sbattu¨ de su¨ sbattu¨ de giò: mi sun de quei che parlen no!

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